Rosy Crespolini

Consulente, formatrice in ambito HealthCare,

esperta in Comunicazione Interculturale,

Teacher Yoga della Risata

Cosa fa un’Organizzazione Positiva e quali sono i suoi risultati

Rosy Crespolini ha lavorato per ventitré anni in un Centro diurno per malati di Alzheimer (come coordinatrice di nucleo e direttore di struttura), un’organizzazione che possiamo definire a tutti gli effetti “complessa” anche se, nell’immaginario collettivo, non associamo subito al concetto di “impresa”. Pensa cosa vuol dire coordinare un servizio di questo tipo: hai i tuoi stakeholder (operatori della struttura, fornitori, pazienti, familiari, dirigenti della Cooperativa Sociale a cui il Centro faceva capo), equilibri da ricercare tra qualità del servizio e sostenibilità economica, e una grande sfida per stimolare l’engagement e generare motivazione in una categoria professionale (gli operatori sociali) chiamati a un compito importante (la cura dei malati), ma sottoposti a enormi pressioni tra le quali spesso quella di essere sottopagati.
Quando si pensa ai centri per anziani o per malati spesso si immaginano luoghi dall’atmosfera pesante, triste o malinconica. Questa è invece la storia di come Rosy, e il team di fondatori del Centro, hanno costruito non solo un’Organizzazione Positiva ma un modello che è stato per tanti anni fiore all’occhiello e oggetto di studio, sia per la qualità del servizio che per gli ottimi risultati economico-finanziari che ha saputo produrre.

Perché è nato il Centro diurno per anziani? Qual era lo “scopo” dell’organizzazione al momento della sua fondazione, a cui tu hai partecipato?

Il Centro Diurno per malati di Alzheimer apre successivamente all’apertura del centro diurno anziani. Dopo i primi due anni di funzionamento del centro diurno avevamo notato la difficoltà di convivenza tra gli anziani che non avevano patologie cronico-degenerative dal punto di vista cognitivo e quelli che invece ne erano affetti. Gli uni erano elementi disturbanti per gli altri e viceversa: i primi perché non sopportavo la continua ripetitività degli ospiti affetti da demenza e i secondi perché erano disturbati dalla “confusione” che generava chi condivideva gli spazi con loro.

La struttura dove venivano accolti inoltre, per le sue caratteristiche, ci obbligava ad un maggior impiego di operatori necessari alla sorveglianza dei malati che erano affetti da wandering (deambulazione afinalistica) che erano ad alto rischio di fuga. Non da ultimo ci hanno spinto verso questa scelta le domande per accedere alla struttura, sempre più erano relative a persone affette da patologie dementigene di vario genere e sapevamo di non poter garantire loro un’adeguata accoglienza e assistenza. Lo scopo era quello di creare uno spazio confortevole, dove queste persone potessero vivere serenamente e senza contenzioni, ne fisiche ne farmacologiche, liberi di poter scegliere come muoversi e gli spazi da occupare.

Il nostro compito era quello di dare continuità al loro percorso di vita, mantenendo le loro abitudini e i loro gusti e favorendo le abilità residue che ancora potevano esprimere. Convinti che l’estetica avesse un ruolo fondamentale nei luoghi di lavoro definimmo che doveva essere un bel luogo, quindi l’investimento era ben mirato anche dal punto di vista della cura dei particolari.

 Non volendo la classica struttura sanitaria, e non essendoci realtà intorno a noi che corrispondessero al nostro pensiero, ci obbligammo ad un lavoro di ricerca e studio, coinvolgendo anche un Architetto che avesse una componente “umana” e che fosse in grado di realizzare un progetto dove da subito questa umanità potesse emergere. Era chiaro che volevamo la Ferrari dei centri diurni, per usare una metafora.

Come avete selezionato la squadra (coordinatori, infermieri, addetti e operatori vari)? Lo “scopo” dell’organizzazione ha avuto un qualche ruolo di guida e orientamento in questi processi? E in quello di valutazione della performance e dell’efficacia di capi/manager/supervisori/leader?

Volevamo una Ferrari, allora non potevamo permetterci di guidarla come una Panda. Le cooperative sociali, in quegli anni, erano molto autocentrate e autoreferenziali, erano convinte di non dover imparare niente da nessuno.

Fortunatamente l’allora presidente Silvana Colombo fu lungimirante e decise che non potevamo costantemente guardare al nostro interno, non saremmo stati in grado di innovare e portare nuova linfa all’interno. Fu così che decidemmo di avviare un percorso di affiancamento e orientamento con un Centro Studi che conoscesse molto bene la tematica, ma alla fine fummo ancora noi a superare le aspettative e il nostro Centro divenne un esempio anche per loro, diventammo una sorta di nave scuola, un esempio da seguire. Anche la selezione del personale fu affidata al Centro Studi e anche questa, come tutto il resto, fu impostata sotto forma di apprendimento.

Ci insegnarono come fare una selezione efficace e come trovare persone che fossero in grado di lavorare insieme, quindi chi aveva un’indole individualista veniva scartato a priori. Ovviamente dovevamo rispettare quelli che erano i parametri imposti da Regione Lombardia per quanto riguarda le qualifiche ma questo non è stato un limite. Nonostante siano passati molti anni mi ricordo perfettamente come venne impostato il colloquio e quali furono le domande fatte. Questo modello mi ha poi accompagnato negli anni per le successive selezioni del personale, cosa che devo ammettere è accaduta molto raramente in quando eravamo soggetti ad un bassissimo turn-over.

Per prima cosa si cercava di conoscere la persona, quali erano i suoi interessi oltre alla propria professione e quali le sue abilità. Che fossero delle persone con interessi al di fuori dell’ambito lavorativo li portava già ad una valutazione positiva del 50%. Successivamente si ponevano domande che dovevano evidenziare le caratteristiche di ognuno: qual è l’ultimo libro che hai letto (curiosità), mi racconti la tua ultima vacanza (entusiasmo e capacità di cogliere gli aspetti positivi della vita), cosa faresti con un tappo di plastica (creatività), come spiegheresti cos’è un telefono a me che non lo conosco (capacità di usare un linguaggio semplice) ed infine un test per verificare la capacità di cogliere le differenze e non imporre la propria volontà per cambiarle (capacità di accettazione dell’altro per quello che era). Ne uscì una squadra di lavoro “variopinta” e ricca. Ciascuno di loro aveva delle abilità che avrebbe potuto mettere in campo oltre alla propria professionalità. Io non dovevo far parte di questa squadra, a me era stato riservato il compito di occuparmi della realizzazione della struttura e dello start-up, fino al giorno prima mi occupavo di amministrazione e di direzioni di strutture ma solo sotto l’aspetto economico. Certo è che avevo svolto tutta questa parte con un entusiasmo oltre misura, ma mai mi sarei sognata di potermi cimentare in un ruolo che avesse a che fare con un lavoro più “umano” ed abbandonare la sicurezza del mio mondo fatto di numeri che dovevano quadrare.

Fu solo alla fine della prima giornata per i colloqui per il ruolo di coordinatore, che la selezionatrice aveva bocciato uno dietro l’altro, devo dire con nostro grande disappunto e stupore convinti di aver candidato i migliori elementi della cooperativa, che mi venne chiesto di convocare la Presidente per comunicare la scelta, e la selezionatrice, così, di punto in bianco disse che ero io la persona adatta a questo ruolo e che pertanto avrebbe sospeso i colloqui. Ci fu una destabilizzazione totale, la cooperativa avrebbe assunto il rischio di metter al comando una persona che non aveva i “titoli” per ricoprire questo ruolo e inoltre avrebbe perso la persona che da anni si occupava del controllo di gestione e delle finanze. Dovettero convocare un consiglio di amministrazione e prendere una decisione coraggiosa.

Il patto che l’organizzazione fece con questi operatori è stato chiaro fin da subito, rispettiamo le professionalità e i ruoli di tutti ma li dentro siamo tutti operatori al servizio dei nostri ospiti o meglio, come successivamente iniziamo a chiamarli, dei nostri eroi. Perché il linguaggio che si usa fa la differenza, se li avessimo chiamati ospiti significava che quella non era casa loro e siccome con il termine residenti o inquilini non ci ritrovavamo molto, abbiamo iniziato a chiamarli così, perché per noi loro erano davvero degli eroi che ogni giorno combattevamo con un mostro di malattia.

Tutto quanto raccontato non deve far incorrere nell’errore di pensare che fosse scontato in quanto si trattava di una cooperativa sociale: è stata fatta una scelta ben precisa da parte della dirigenza della cooperativa. C’erano due possibilità, avere un centro a forte connotazione sanitaria dove tutto funzionava secondo i più rigidi protocolli, oppure orientarlo verso un approccio olistico che mettesse al centro la persona e il suo modo d’essere. Si scelse questa seconda opzione. E’ scontato che in tutto questo la cooperativa chiedesse dei risultati tangibili di sostenibilità e garanzia di qualità: la misurazione dei risultati veniva fatta con i questionari di gradimento, anonimi, che annualmente venivano somministrati a famigliari ed operatori.

Il questionario aveva anche una parte relativa alla percezione del benessere, all’accoglienza e i risultati ci hanno sempre dato ragione sul fatto che stessimo andando nella giusta direzione. Anche la partecipazione da parte delle famiglie alle riunioni periodiche era per noi un indicatore positivo in quanto era un messaggio chiaro che le famiglie si sentivano coinvolte nel progetto di cura. Ovviamente anche il parametro economico era un dato su cui veniva posta l’attenzione, e da questo punto di vista mi ha favorito la mia prima professione, quella di direttore amministrativo. Avevo ben chiara l’analisi dei costi/ricavi, sapevo come intervenire, come lavorare sulle economie di scala e quali azioni migliorative potevano essere intraprese. Era scontato però che anche questi aspetti andavano calati alla realtà dove io lavoro e quindi i preventivi e i consuntivi di bilancio venivano condivisi con il resto della squadra e mai calati dall’alto. I bilanci di esercizio sono sempre stati positivi e corrispondenti ai previsionali che la struttura presentava e questo mi ha concesso, con il tempo, di avere una certa flessibilità sulla ripartizione dei costi consentendoci pertanto di investire nel migliorare la qualità del servizio e del lavoro degli operatori. Vorrei solo fare un piccolo cenno su come, anche chi ha realizzato l’opera e i vari artigiani che sono stati coinvolti siano stati fin da subito catturati da questo modello, tanto da mettersi totalmente a disposizione e successivamente, quando avevamo bisogno di manutenzioni, appresero il modo di accedere alla struttura rispettosi di chi la viveva. Io credo fermamente che il bene attragga il bene e non fu un caso che anche queste persone divennero parte del nostro modo di essere.

Perché è nata l’Associazione dei Comuni Virtuosi? Qual è il suo scopo?

Per condividere buone pratiche in campo ambientale sperimentate in giro per l’Italia da decine di comuni virtuosi.

Obiettivo principale della rete è la diffusione orizzontale e capillare di una nuova cultura della sostenibilità che, a partire dalle istituzioni locali, sia in grado di influenzare positivamente le comunità e i territori verso un cammino di resilienza e inclusione.

Quali sono le iniziative, le pratiche “virtuose” che hanno reso alcuni Comuni italiani un modello di successo, tanto da essere osservati con interesse e studiati anche da altri comuni europei?

Ci sono comuni nella rete che da almeno un decennio praticano progetti avanzatissimi di raccolta differenziata spinta dei rifiuti, di consumo di suolo zero, di taglio dei consumi legati alla bolletta energetica, di politiche di partecipazione attiva da parte della cittadinanza. Ponte nelle Alpi, Capannori, Cassinetta di Lugagnano, Castel del Giudice, Agerola, sono solo alcuni dei tanti comuni dove ogni anno fanno tappa amministratori locali che giungono da tutta Europa per capire come si fa ad essere virtuosi.

È proprio così, al di là di quanto noi stessi a volte non crediamo per molti, almeno a livello delle istituzioni locali, rappresentiamo un modello e un’eccellenza.

Ci hai detto che in vent’anni di esperienza avete ormai distillato un modello di cambiamento sostenibile e che sta in piedi di cui vorreste si accorgesse la politica nazionale e che fosse quindi incorporato in iniziative legislative capaci di sostenere e accelerarne la diffusione. Quali sono le caratteristiche di questo modello, i suoi fini, le parole chiave?

Comunità è la parola più importante. Una comunità viva, curiosa, resiliente, in grado di mettersi in gioco dentro e fuori le istituzioni costruendo processi, strumenti, occasioni e percorsi in grado di contaminare il presente per costruire un futuro diverso. Il modello di sviluppo è quello che mette al centro la persona, il suo benessere, in una logica in cui nessuno deve rimanere indietro.

Quali erano i principali processi, le procedure, le pratiche, le iniziative e le politiche verso il personale interno, i pazienti e i familiari che hanno reso il Centro un’organizzazione positiva, tanto da diventare un modello per altre strutture?

Avevamo una regola fondamentale alla quale tutti noi ci attenevamo: non spetta a noi giudicare, a noi spetta il compito di accogliere. L’atteggiamento non giudicante e accogliente è quello che ci ha consentito di creare relazioni positive sia al nostro interno che all’esterno.

Non potevamo esimerci dal fatto che se questo atteggiamento veniva rivolto ai famigliari e ai nostri eroi, ancora di più lo dovevamo a noi stessi. In questo modo le famiglie non si sentivano giudicate per le situazioni in cui loro già vivevano dei sensi di colpa: non sono riuscita a vestirlo adeguatamente, non sono riuscita a lavarlo, mi insulta ogni volta che mi vede, cosa starò sbagliando… e via dicendo. A loro volta le famiglie non attaccavano gli operatori se non erano riusciti a portare a termine il bagno settimanale.

Tra noi e loro c’era una sorta di patto di reciproca comprensione, sapendo che in primis, da entrambi le parti, veniva la persona che ci era stata affidata. Il centro inoltre era una struttura aperta alle famiglie, pur nel rispetto degli spazi destinati ai nostri eroi, quindi si organizzavano con loro momenti di condivisione e festa e questo aiutava a rafforzare i legami. Noi operatori inoltre avevamo imparato che un sorriso o un abbraccio valevano più di mille cose dette, quindi ad ogni arrivo del mattino gli operatori sapevano che dovevano presentarsi all’accoglienza sorridendo.

Le famiglie avevano già troppe cose di cui rattristarsi, noi potevamo cambiare loro la giornata semplicemente sorridendogli. Non è il caso di disturbare qui i neuroni specchio, ma vi assicuro che questo era quello che succedeva: io ti regalo un sorriso e tu te ne vai sorridendo e sentendoti più leggero.

Rispetto al vivere nella nostra struttura posso solo dire che l’ambientazione casalinga (a partire dagli arredi) era il perno intorno a cui girava il tutto: via i piani di lavoro, ogni giornata andava vissuta per come i nostri eroi si sentivano e ci invitavano a fare. Qualcuno può pensare che l’assenza dei piani di lavoro portava gli operatori a fare meno, io invece vi dico che l’assenza di piani di lavoro li portava invece a fare di più, più di una volta mi sono sentita dire frasi del tipo: abbiamo finito presto di fare i bagni e allora abbiamo fatto la manicure con lo smalto alla sig.ra… al pari se un giorno, per varie ragioni, un bagno non era andato a buon fine, non comportava per loro nessun “rimprovero”, e questo li faceva lavorare con serenità. Per noi era importante rispettare tempi e abitudini dei nostri eroi, partendo dalla loro storia di vita raccolta nella biografica che compilavamo con il famigliare, gli operatori sapevano esattamente cosa piaceva ad un eroe o cosa gli dava fastidio, davano voce a quelli che non potevano più comunicare verbalmente e questo valeva per tutto: dall’acqua naturale piuttosto che gasata, allo scegliere un film o una musica.

Apprezzavamo il fatto che la mancanza di ruoli e piani di lavoro ci metteva tutti sullo stesso piano. Non c’era un operatore migliore di un altro, c’erano solo operatori che venivano scelti dai nostri eroi e di questi operatori si fidavano più che di altri, fossero loro infermieri, assistenti, medici o coordinatori. Non era un problema che il coordinatore imboccasse un eroe e trovasse la strategia di tranquillizzarlo in momenti di particolare agitazione se quella era la persona con il quale era entrato maggiormente in relazione. E non avevamo paura di chiedere aiuto né di vedere un rifiuto da parte di un eroe come una sconfitta o un fallimento. Faceva parte del nostro patto: dove non arrivi tu magari può arrivarci un altro ma non per questo tu ti devi sentire inferiore. Questo rispettare l’individualità dei nostri eroi veniva poi tradotto anche nel modo di essere e agire degli operatori: come ho detto nella parte relativa alla selezione, gli operatori erano stati selezione anche in base alle loro abilità extra-professionali che per, qualcuno corrispondeva a dei percorsi precisi fatti: l’infermiera che praticava Reiki e Tuina, l’ASA che era anche un operatore shiatsu e abilitato per svolgere attività assistite con gli asini, l’educatrice che era un educatore cinofilo, la fisioterapista che era diplomata in naturopatia, solo per citarne alcuni, mentre per altri potevano essere passioni individuali: un ASA che era esperta in creatività manuali, oppure una degli operatrici di supporto che aveva la passione del canto e del ballo ed era una praticante Reiki: lei per esempio era quella che garantiva i momenti di allegria ma allo stesso tempo ci aiutava far rilassare i nostri eroi. 

Ciascuno di loro poteva mettere in campo le proprie passioni e abilità andando così a creare, involontariamente, un centro olistico multidisciplinare aperto agli approcci delle terapie non farmacologiche. Fu una vera sfida ma questa ricchezza di risorse ci portò agli onori della cronaca sia locale che nazionale nonché di quella specialistica. La passione che i singoli portavano pian piano contaminò tutti ed entro la fine del secondo anno di attività tutti gli operatori erano diventati praticanti Reiki, me compresa, perché sono convinta che il vero leader non è quello che conduce una squadra ma è quello che cammina al loro fianco e per me stare fuori da questi processi sarebbe stato impensabile, non sono mai stata una di quelle persone che sosteneva l’ “armatevi e partite”, se ci si arma si parte tutti insieme. Quando si trova un oggetto di passione comune la squadra diventa ancora più forte e i benefici vanno a ricaduta sulle persone che si assistono. A tal proposito qualche scettico rispetto alla terapie non farmacologiche potrebbe pensare che sperimentavano sulla pelle degli altri, ma non era così. Ogni avvio di sperimentazione di nuove tecniche è stato tradotto in una ricerca scientifica con precisi protocolli ed indicatori che rilevavano la condizione del prima e durante ma anche sul follow-up successivo.

Questi progetti di ricerca venivano seguiti da una psicologa che poi si incaricava di tradurli anche in pubblicazioni scientifiche, congiuntamente li presentavano poi ai convegni di settore o venivano pubblicati su riviste specializzate. Pur nella libertà di ognuno l’etica è sempre stata uno dei nostri punti di forza e questo modello era in primo luogo etico e rispettoso degli individui. In ultimo, ma solo in termini di presentazione, è l’importanza che è sempre stata data alla formazione di tutti noi operatori.

La formazione che sceglievamo insieme si basava su due regole precise:

  • Tutti gli operatori – dall’addetta ai servizi al medico, compresa la direzione –  dovevano partecipare.
  • La formazione era sempre una formazione di senso che ci aiutasse a stare meglio, non abbiamo mai aderito alla classica formazione teorica d’aula. Ma formazione per noi era anche organizzare dei momenti di svago comuni, cito ad esempio la cena o il percorso al buio dove andammo per capire cosa significava soffrire di deprivazione visiva e imparare a potenziare gli altri sensi, ma ci servì anche per divertirci e passare una allegra serata tutti insieme. Anche le equipe per noi erano a carattere formativo e orientate all’apprendimento reciproco dove tutti avevano spazio di parola e le idee potevano fluire liberamente. Cosa importante era l’organizzazione a farsi carico dei costi, cene comprese. Di questo gli operatori era consapevoli per questo davano molto di più di quanto fosse loro effettivamente richiesto.

Quali erano gli indicatori di “successo” del Centro? Quali risultati positivi (es. lista d’attesa, riduzione costi, turnover, assenteismo, altri..) ha registrato il Centro nel periodo precedente al cambiamento? Quali parametri sono cambiati dopo?

L’errore di molte persone è pensare che queste strutture organizzative abbiamo un costo insostenibile.

La mia esperienza mi porta invece a dire che questo tipo di organizzazione è un risparmio per l’azienda e non solo, ha ricadute in termini di costo sociale. Per essere chiara vi elencherò ad uno a uno i punti:

  • Lista d’attesa: la lista d’attesa, vista la reputazione della struttura è sempre stata numericamente importante, i tempi di accesso si aggiravano intorno ai 2 anni.
  • Riduzione dei costi dell’organico: un’organizzazione di questo tipo ha bisogno di meno personale per poter funzionare in quanto un operatore, in una condizione di benessere, ha un rendimento maggiore rispetto ad un operatore sottoposto a continui stress. 
  • Riduzione dei costi materiali: l’attenzione allo spreco era molto alta, gli operatori erano consapevoli che avremmo potuto investire di più nella qualità di vita dei nostri eroi e nella formazione se avessimo avuto un’attenzione particolare agli sprechi. Inoltre sapevano che se non sforavamo con i costi, l’anno successivo avremmo potuto mantenere le rette di frequenza allo stesso importo. Avevano a cuore le famiglie dei nostri eroi e sapendo quanto era dispendioso il lavoro di cura, si impegnavano a fondo affinché non ci fossero ulteriori aggravi.
  • Turn-over: il turn over era praticamente azzerato. Questo in termini economici sembra una banalità ma pensate al tempo necessario di apprendimento di un nuovo operatore: in un servizio come il nostro voleva dire un affiancamento minimo di 15 gg per le figure assistenziali, fino a periodi di 1 o due mesi per sostituire un coordinatore. Questi sono costi che si aggiungono a quelli standard. Lo stesso vale in un’impresa produttiva, se non viene fatto il periodo di affiancamento alla persona uscente, dobbiamo mettere in conto un periodo di apprendimento autonomo che comporterà un rallentamento dal punto di vista produttivo sia del nuovo entrato che di chi, mentre lavora, deve insegnare.
  • Riduzione assenteismo/malattie: le malattie possono avere un’incidenza importante sul costo del personale. Ci sono aziende che hanno un’incidenza che può arrivare anche al 10%, ovvero per ogni 100.000 euro spesi 10.000 euro mi servono per coprire le malattie (circa 20 giornate annue a persona per intenderci), quelle virtuose riescono a ridurre questo costo intorno al 3-5%, la nostra realtà era arrivata all’1,5%. L’incidenza maggiore non ce l’hanno le malattie “serie” di lungo periodo, ma i piccoli malanni di stagione che fanno si che il dipendente si assenti dal lavoro 3-4 giorni, e chi ha a che fare con i conti sa che i primi 3 giorni di malattia sono totalmente a carico dell’azienda. Sono questi i malanni a cui gli operatori/lavoratori sono maggiormente sottoposti. Lo stress è risaputo abbassa le nostre difese immunitarie esponendoci maggiormente al rischio di malattie. Ovviamente a questo si aggiunge il tempo dedicato per organizzare la sostituzione: nel nostro caso si poteva tradurre in ore di coordinamento.
  • Ricadute sociali: se partiamo dal punto di vista degli operatori un minor accesso alla spesa sanitaria è sicuramente un elemento da tenere in considerazione ma questo vale anche per i famigliari e i nostri eroi: se un famigliare viene alleggerito del carico di cura e sostenuto in questo ruolo, avrà una maggior serenità e di conseguenza meno rischio di ammalarsi. Per quanto riguarda invece gli eroi, una buona calibrazione di quella che viene definita la triade terapeutica (operatore, famigliare, ambiente) ridurrà di gran lunga i disturbi di comportamento tipici della malattia evitando così l’uso di farmaci sedativi che a loro volta obbligheranno ad usare altri farmaci. L’approccio olistico alla persona, che mette in campo anche le terapie non farmacologiche, è un ulteriore strumento per ridurre l’uso del farmaco.
  • Ritorno positivo di immagine: il ritorno positivo di immagine non è un elemento da sottovalutare, anzi è uno strumento da valorizzare. In organizzazioni come la nostra il ritorno positivo di immagine era un’attrazione per gli stakeholder esterni che possono decidere di investire sia dal punto di vista finanziario che dal punto di vista del marketing abbinando il tuo nome al loro marchio. Questo servizio ha ricevuto riconoscimenti e finanziamenti anche grazie al fatto di essere un’organizzazione positiva.

“Dipende solo da ognuno.”

La leadership positiva richiede alle persone che guidano e gestiscono le organizzazioni di integrare il paradigma razionale-economico (per garantire la crescita e l’efficacia dell’organizzazione) con il paradigma emotivo-umano (per consentire alle persone di fiorire). Tu come ci sei arrivata?

Anche qui devo ringraziare l’organizzazione dove lavoravo, che ha costruito per me un percorso di accompagnamento e mi ha dato fiducia. Ha scelto per me i migliori tutor che c’erano nell’ambito dell’organizzazione dei servizi alla persona e del lavoro con le demenze e loro mi hanno seguito per un anno prima dell’avvio del servizio (nel frattempo si costruiva la struttura) e poi un anno di supervisione a me e alla squadra.

Siamo stati “rivoltati come dei calzini” per poter tirar fuori le nostre specificità e genialità e sconfiggere le nostre convinzioni limitanti.

Per un anno, 4 giorni al mese ci trovavano tutti per imparare a conoscerci, rompere i nostri schemi mentali e… sognare… si perché era quello il mandato che avevano, sognare come ci sarebbe piaciuto lavorare. Ciascuno di noi, mettendo in campo le passioni, sognava come avrebbe potuto esprimerle. E’ importante sottolineare che io e gli altri abbiamo prima dovuto fare un grosso lavoro su noi stessi attraverso il coaching, anche individuale. Durante il percorso abbiamo inoltre lavorato molto sulla psicologia positiva e l’intelligenza emotiva, sono stati le basi del nostro lavoro insieme alle modalità comunicative. Il nostro motto era “le parole formano pensieri” quindi utilizzavamo solo parole positive eliminando tutte quelle che erano depotenzianti. Ci siamo allenati molto ed era bello correggerci a vicenda per imparare, ma il linguaggio insieme al sorriso ha fatto si che diventasse veramente un’organizzazione positiva. Anche qui qualcuno potrebbe dire, si ma è un costo… vero, ma il giorno che abbiamo aperto le porte tutti noi eravamo pronti, il centro si è riempito in meno di un mese perché noi tutti avevamo ben chiaro cosa ci aspettava e non ci sono stati intoppi di sorta. Anche il tutoraggio successivo è andato in questa direzione e da li siamo diventati subito un modello da seguire.

Quanto ho appreso è poi diventato il mio modello nella formazione basato su questi elementi: 

  • valorizzazione delle persone secondo le loro genialità e specificità 
  • utilizzo di un linguaggio potenziante dove la frase da tenere a mente è: non esistono problemi ma opportunità di apprendimento
  • rafforzamento dei canali comunicativi – psicologia positiva
  • sorriso ed allegria

 

La tua esperienza diretta di successo al Centro ti ha portato a vivere il cambiamento che poi si è verificato, e la tua successiva uscita, come un’opportunità per portare all’esterno ciò che hai imparato, e contribuire a creare nuove organizzazioni positive nel settore della Cura e della Salute. Qual è il tuo “scopo” oggi e lo scopo della tua nuova attività?

Oggi vorrei far capire a tutti che le organizzazioni positive sono possibili e che non sono delle isole felici per pochi eletti o per chi ha molte disponibilità economiche. La mia duplice competenze, economica-amministrativa e pedagogico-educativa, mi porta a dire che l’integrazione tra questi due paradigmi è possibile. Il lavoro di cura ha bisogno di nuovi modelli, basta con i percorsi su come elaborare il lutto continuando a parlare del lutto, basta con i gruppi di auto-mutuo aiuto dove piangersi addosso. Le persone hanno bisogno di bellezza, di sorrisi, di allegria. La gente oggi ricerca queste condizioni, li cerca nei centri benessere, nelle terme ma durano il tempo di una giornata.

Il mio obiettivo oggi è dare alle persone uno strumento per vivere felici. Le persone hanno il diritto di stare bene. Utopico? Forse si, ma se ha funzionato con me sono cerca che possa funzionare anche con altri e non è un caso che un tempo la salute fosse definita come assenza di malattia mentre oggi la definizione di salute dell’OMS cita: “la salute è

Uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, e non soltanto l’assenza di malattia o di infermità. In promozione della salute, la salute viene considerata non tanto una condizione astratta, quanto un mezzo finalizzato ad un obiettivo che, in termini operativi, si può considerare una risorsa che permette alle persone di condurre una vita produttiva sul piano individuale, sociale ed economico.

La salute è una risorsa per la vita quotidiana e non lo scopo dell’esistenza. Si tratta di un concetto positivo che valorizza le risorse sociali e personali, oltre alle capacità fisiche. O ancora, la carta dei diritti di Ottawa che individua tre strategie fondamentali per la promozione della salute: advocacy, al fine di creare le condizioni essenziali per la salute precedentemente indicate; enabling, per abilitare le persone a raggiungere il loro massimo potenziale di salute; mediating, per mediare tra i diversi interessi esistenti nella società nel perseguire obiettivi di salute.

Queste strategie sono supportate da cinque aree d’azione prioritarie, come delineato nella Carta di Ottawa per la promozione della salute:

  • Costruire una politica pubblica per la salute
  • Creare ambienti favorevoli alla salute
  • Rafforzare l’azione della comunità
  • Sviluppare le abilità personali
  • Ri-orientare i servizi sanitari

Tutto questo è rispondente al modello delle organizzazioni positive.

Quali sono, secondo te, le sfide, gli ostacoli, le difficoltà, le fatiche o le resistenze da affrontare nel percorso di costruzione di un’organizzazione positiva nel settore della Salute?

In primis la selezione del personale: credo sia opportuno togliersi dalla cattiva abitudine degli avanzamenti di carriera per anzianità o dal dover collocare amici e parenti. In ambito del privato sociale spesso si tende a collocare persone per i motivi di cui sopra oppure perché devono essere ricollocati a seguito di appalti persi.

Ecco, questo non funziona in questo tipo di organizzazione. Non è un discriminare, è solo porre un’attenzione in più verso chi scegliamo per far parte della nostra squadra.

Nel settore pubblico ovviamente la logica dei concorsi fatti solo sui curriculum e sulle specifiche competenze legati alla qualifica, non aiutano a creare questo tipo di organizzazione.

Fortunatamente, e sottolineo il fortunatamente, queste organizzazioni possono diventare centripete o centrifughe a seconda dei casi. Si può tradurre così: se un operatore che è stato selezionato, pur non avendo ancora sposato la filosofia di lavoro dell’organizzazione, è in linea con il pensiero, aperto al cambiamento, desideroso di dare il proprio contributo, l’organizzazione lo porterà verso il suo interno, accogliendolo ed accompagnandolo.

Ma se un operatore che entra in questa organizzazione non è resiliente e pensa che questo modello non possa funzionare, sarà naturalmente espulso. Diverso invece sarà il caso del cambio del leader, in questo caso, se il modello verrà cambiato per qualcosa non altrettanto valido e non orientato all’attenzione delle persone, saranno gli operatori che sceglieranno di andarsene.

Le organizzazioni positive creano un forte senso di identità tra chi vi lavora e se uno non si riconosce più nel modello, l’abbandono è il processo di selezione naturale che ne consegue. Uscire dall’ottica dei ruoli, dei piani di lavoro non è facile, può sembrare di dover rinunciare a se stessi, ad un ruolo faticosamente guadagnato, non è così. I tuoi collaboratori ti riconosceranno comunque come leader ma tu sarai più gratificato perché il loro rispetto non l’avrai per il titolo conseguito ma perché effettivamente ti riconoscono delle competenze.

L’altro aspetto è quello di convincere gli amministratori che l’investimento iniziale verrà ripagato nel tempo, non è un percorso che si fa dall’oggi al domani, i risultati non saranno immediati, ma quando arriveranno saranno duraturi nel tempo. Ci vuole costanza e perseveranza, sapere che probabilmente dovrà agire per gradi in una Residenza per Anziani per esempio dovrò partire un reparto alla volta, non posso immaginare di partire di punto in bianco su tutta una struttura. Occorre essere chiari ed onesti nel patto che viene fatto con gli operatori: le parole dovranno corrispondere alle azioni che si metteranno in atto.

Cosa diresti ai direttori dei centri, dirigenti di cooperative sociali o dirigenti ospedalieri per convincerli che vale la pena investire sul benessere delle persone e che ha senso iniziare a costruire organizzazioni positive?

Lancerei solo una semplice provocazione: nei vostri codici etici e nelle vostre carte dei servizi siete sempre molto orgogliosi di enfatizzare che la persona è al centro, che costruite progetti a misura di persona. Perché questo, anche solo in termini di coerenza, non dovrebbe valere anche per le persone che lavorano per e con noi? Non credo ci sia bisogno che si ricordi loro che periodicamente nei media appaiono notizie di malati maltrattati, la rabbia che gli operatori sfogano su queste persone non è altro che la risposta al senso di frustrazione che vivono loro stessi.

Non è questione di essere persone cattive, è questione di essere persone che non sono serene e non si sentono valorizzate.

Non possiamo pretendere che gli altri trattino bene chi gli viene affidato se in primis non diamo il giusto esempio. Posso io dire continuamente a qualcuno che fumare fa male e che dovrebbe smettere mentre io continuare a fumare? Ecco in un’organizzazione positiva il benessere deve passare attraverso la condivisione degli intenti e il buon esempio.

Vuoi aggiungere qualcos’altro in relazione al tema e alla tua esperienza?

Mi piacerebbe venisse pubblicato il nostro codice etico, è stato un lavoro costruito e pensato da tutta la squadra partendo dai valori fondamentali in cui ciascuno di noi credeva. Era rimasto pubblicato all’ingresso della nostra struttura affinché tutti potessero vederlo e richiamare la nostra attenzione se ci allontanavamo, grazie al lavoro di tutti questo non è mai successo.
Ora non è più in uso quindi non stiamo “rubando” niente a nessuno.

Codice etico degli operatori

Il presente codice etico è stato realizzato secondo i valori condivisi in cui crediamo.
Nella stesura abbiamo tenuto conto di un fattore importante: come elabora i pensieri la nostra mente.
La mente ha una grande abilità che può risultare un limite, quella di orientarsi, spesso in modo inconsapevole, in funzione dei propri pensieri, per questo è molto importante rendere positivo il linguaggio con il quale ci esprimiamo e pertanto abbiamo voluto utilizzare solo frasi in positivo senza mai utilizzare la parola “non” in quanto questa non verrebbe recepita dal nostro inconscio. L’affermazione è il punto di partenza, il primo passo che apre la via al cambiamento. Facendo affermazioni, diciamo all’inconscio che ci stiamo responsabilizzando, che possiamo e vogliamo fare qualcosa per cambiare. La scelta di utilizzare la forma del “tu” anziché del “lei” è stata fatta per la vicinanza che noi sentiamo nei confronti dei nostri ospiti ma sapremo rispettare chi gradirà altre forme di approccio.

  • Nel nostro centro verrai accolto come una persona con una sua dignità, che ha un passato da valorizzare ed un presente da rispettare, pertanto ci impegniamo nella realizzazione di un progetto individualizzato che tenga conto dei tuoi interessi, dei tuoi gusti, delle tue emozioni e di tutto ciò che ti può creare benessere.
  • Rispetteremo la tua intimità soprattutto nei momenti dedicati alla cura del corpo. Saremo discreti e rispettosi delle tue esitazioni, attenti soprattutto ai segnali che vanno oltre il linguaggio.
  • Valorizzeremo l’autonomia che hai conservato standoti accanto e indicandoti la strada, aiutandoti affinché tu possa continuare a sentirti utile a te stesso, rispettando i tuoi modi e i tuoi tempi.
  • Sapremo rispettare il tuo dolore, i tuoi momenti di tristezza e i tuoi silenzi, rimanendoti accanto con discrezione, ascoltando i tuoi problemi e, se lo vorrai, incoraggiandoti a superarli.
  • Ci impegniamo affinché durante la tua permanenza qui tu possa trovare un clima armonioso e tranquillo con operatori sempre disponibili a regalarti un sorriso e che possano trasmetterti serenità e gioia.
  • Ci impegneremo per farti vivere in un ambiente confortevole e decoroso di cui ci prenderemo cura come se fosse la nostra casa; in questo ambiente vogliamo che tu possa sentirti come a casa tua, libero di esprimerti e di scegliere i luoghi dove stare e le cose da fare, libero da costrizioni, imposizioni o contenzioni.
  • Ti garantiamo che quanto verremo a sapere di te rimarrà custodito con discrezione e ne parleremo solo duranti i momenti di confronto e solo se le informazioni che abbiamo acquisito porteranno benefici e potranno aiutarci a migliorare il tuo progetto di assistenza.
  • Saremo pronti ad accoglierti qualsiasi sia il tuo credo religioso, il tuo orientamento politico o altre scelte di vita che fanno o hanno fatto parte della tuo essere.
  • Manterremo un contatto diretto con i tuoi care-giver: li aiuteremo a superare i momenti più difficili e a trovare soluzioni che li facilitino nel loro cammino di cura, attueremo uno scambio reciproco di informazioni con il solo scopo di creare una continuità di azione finalizzata al tuo benessere.
  • Ci impegnamo ad aiutarci reciprocamente, collaborando e accettandoci nelle diversità e nelle peculiarità di ognuno, considerando i suggerimenti dell’altro come occasione di miglioramento e crescita finalizzati al ben-essere comune.
  • Come operatori professionisti ci impegniamo a rimanere costantemente aggiornati seguendo dei percorsi di formazione e auto-formazione affinché possiamo migliorare ed apprendere sempre cose nuove che ci aiutino ancor meglio a prenderci cura di te.

 Non dubitare mai che un gruppo di persone motivate possa cambiare il mondo 

(Margaret Mead)

Dedicato a tutti gli ospiti e le famiglie che nel corso del tempo abbiamo incontrato e incontreremo: è grazie alla fiducia e all’affetto che ci dimostrano che continueremo a svolgere questo lavoro con l’impegno, la professionalità e la passione che merita, sempre orientati versa la realizzazione di nuovi sogni.

 

Approfondisci scrivendo a info@socialunit.it