Paolo Venturi

Direttore di AICCON e The Fundraising School

Qual è il tuo perché, il tuo scopo e perché hai scelto di occuparti di economia sociale?

Il mio scopo? Sembra banale ma chi può rinunciare ad essere felice. Chi sostituirebbe l’utilità con la felicità? Certo la vita, il lavoro la famiglia sono una sequenza di circostanze che spesso richiedono e incentivano affinchè prevalga l’utilità o la performance rispetto alla gratificazione, ma poi alla lunga questa posizione non è sostenibile. In questo senso ritengo un privilegio potermi occupare di economia e imprenditorialità sociale perché questo è un ambito in cui la funzione obiettivo degli agenti economici non è misurata dal grado di profitto che si produce, ma dalla capacità di generare ben-essere nei soggetti che lavorano e nei contesti in cui le persone operano. Parlare di Economia sociale in fin dei conti significa mettere al centro degli scambi, la fiducia. La fiducia è quell’elemento che cambia la natura e l’esito di una relazione, sia essa economica, sociale o istituzionale. La fiducia di fatto amplia la realtà, trasforma l’inevitabile in inatteso (J.M.Keynes) ed è la condizione affinché un “bene” possa essere condiviso. Di fatto l’assenza di fiducia impedisce la costruzione del futuro (la speranza) ed è all’origine della visione che basa le scelte in una logica di breve periodo (corto-termismo).

Quali iniziative a livello economico, organizzativo, sociale, educativo, politico che mettono al centro il benessere collettivo, la felicità, la cooperazione, esistono e stanno fiorendo in Italia?

Fin dai tempi di Aristotele il valore dei beni era qualcosa che incorporava “senso”, poiché l’agire si reggeva su due dimensioni: una espressiva/relazionale che si declinava nella propensione a stare in compagnia con altri e l’altra orientata all’utilità del vivere insieme ad altre persone.

Nel corso dei secoli queste due dimensioni si sono divise: la dimensione espressiva e quella strumentale si sono separate, polarizzando cosi l’idea di valore nel profitto e separando i tempi di vita dai tempi del lavoro (lavoro pensato solo in funzione della produzione e non per la felicità). Questa separazione oltre ad aver prodotto paradossi come i working poor o la jobless society è riuscita a creare una situazione prima impensabile ossia produrre ricchezza (intesa come PIL) senza la necessità del lavoro ma solo stimolando il consumo. Tutto ciò ha relegato le nostre scelte ed esperienze dentro un perimetro sempre più consumeristico, facendo rinunciare alle esperienze diventate incredibilmente più costose (pensate quanto è percepito costoso in termini di tempo andare a trovare un amico). Occorre riallineare i codici dell’economico e del sociale e questo emerge molto bene dalle numerose esperienze che nascono in ambito sociale. La ricerca del senso sta generando un’ondata di “ritornanti” che in fuga da lavori e contesti usuranti ritornano ad abitare le aree interne e rurali del paese. Nascono cosi Community Hub come Rural Hub di Calvanico o numerose cooperative di comunità come quella di Cerreto Alpi in cui un nucleo di giovani ha fondato una cooperativa (I briganti di Cerreto) per tornare ad abitare un paese che nel corso degli anni era passato da 400 a 80 persone. Ma non sono solo minoranze profetiche quelle che interpretano questo cambiamento. Stanno nascendo associazioni che reinterpretano la cittadinanza attiva come le social street, ci sono piattaforme tecnologiche basate sulla condivisione di beni e imprese for profit come Nativa, prima Bcorp italiana, che mettono nel loro statuto la parola felicità.

Quali sono, secondo te, le principali sfide, difficoltà, resistenze o gli ostacoli da affrontare nel percorso di costruzione di una società fondata sul principio della felicità o del benessere?

La felicità nasce dentro una dimensione relazionale, fiduciaria. Generare fiducia è l’esito inatteso di una relazione “non strumentale” basata sulla reciprocità. Si capisce bene quindi cosa metta in crisi la fiducia: nel mercato è l’ideologia secondo cui l’efficienza sia sufficiente per garantire la crescita, nelle politiche che il solo atto redistributivo sia sufficiente a garantire equità. La crisi della fiducia si genera ogni qualvolta si pensa che Stato e Mercato possano fare a meno della capacità contributiva ed espressiva delle persone. Sappiamo invece che se il capitale sociale (fiducia generalizzata) è alto e distribuito è più facile competere, produrre valore e migliorare la qualità della vita di chi lavora. La fiducia è un legame (fides – corda) e senza legami non esiste la possibilità di costruire relazioni e benessere

Perché è importante secondo te un libro come questo?

E’ importante perché può accompagnare un diverso orientamento collettivo e fornire evidenze utili a spingere la società ad un cambio di paradigma. Un’autorevole conferma della capacità di scelte coraggiose benchè minoritarie ci viene dallo studio di Rustagi, Engel, Kosfeld (2010), in cui si mostra come il dilemma dei commons (beni comuni) si risolve quando esistono minoranze profetiche che, ispirando il proprio comportamento alla “razionalità del noi” (we-rationality) riescono a trascinare il comportamento degli altri fino al punto di raggiungere un comune obiettivo. La “razionalità del noi” diventa così il paradigma di un modo nuovo di intendere lo sviluppo e il benessere: un paradigma che lega il valore alle relazioni fra le persone e che concettualizza il lavoro come modalità con cui realizzarsi e non solo con l’idea del giusto compenso.

“Questo libro è importante perché può accompagnare

un diverso orientamento col- lettivo e fornire evidenze utili

a spingere la società a un cambio di paradigma.”

Paolo Venturi, Direttore di AICCON, Centro Studi promosso dall’Università di Bologna e dall’Alleanza delle Cooperative Italiane e direttore di The FundRaising School, prima scuola italiana sulla raccolta fondi.